Il fumo.
Chinò gli
occhi sull’erba coperta di brina. La pipa giaceva capovolta tra i ciuffi: gli
era caduta dalla bocca senza che se ne accorgesse, forse un attimo prima che
perdesse coscienza. La afferrò tra l’indice e il pollice. La scosse facendo
precipitare a terra i resti bruciacchiati del tabacco e grattò via con un dito
i rimasugli più ostinati. Infine la ripose nel borsello. Alzò lo sguardo: il
falò ormai spento fumava ancora nell’aria fredda, tre uomini in divisa sonnecchiavano
acciambellati lì vicino, tutti imbacuccati. Non era l’unico a essersi
addormentato senza volerlo, ma non capiva perché Mutio e Raphael se ne fossero
andati senza svegliarlo.
Si tirò in
piedi stentando a trovare l’equilibrio, era ancora indolenzito. Il campo
dormiva avvolto dalle tenebre. Guardò verso levante strizzando gli occhi per
cogliere qualche segno dell’alba ma tutto era buio. Malgrado ciò, percepiva che
il giorno non era lontano. Aveva viaggiato e dormito abbastanza sotto le stelle
per riconoscere la stasi carica di attesa che caratterizza l’ora più buia della
notte, quella che precede il sorgere del sole. Tossì di nuovo, questa volta fu
un colpo secco: la gola gli bruciò come se fosse stata trapassata da mille
schegge. Scrutò con attenzione i confini dell’accampamento alla ricerca delle
sentinelle. Non poté vederle ma immaginò che fossero presenti e vigili. Presto
avrebbero suonato i corni per dare la sveglia alle truppe.
Raccolse da
terra il cappello che gli era scivolato durante il sonno e se lo infilò in uno
dei cinturoni incrociati sul petto. Si coprì la testa con il cappuccio della
cappa e s’incamminò verso la tenda. Ancor prima di raggiungerla si accorse che
Mutio sedeva solitario una ventina di metri fuori dall’ingresso, il capo e le
spalle sotto la pesante coperta che di solito adoperava come giaciglio. Gli
rivolgeva la schiena e puntava gli occhi a oriente, muto e immobile. Lothar gli
si avvicinò senza fretta soffocando il terzo colpo di tosse. Simone udì i suoi
passi, si voltò e lo guardò con gli occhi per nulla offuscati dal sonno.
– Che fai da
solo fuori dalla tenda? – gli chiese Lothar, e la voce gli uscì roca dalla gola
arsa. – Tra poco suoneranno la sveglia. Sarebbe meglio…
– Sssssh… –
Mutio si mise l’indice sinistro davanti al naso. – Lo senti anche tu?
Lothar
corrugò la fronte. Si accovacciò con il mantello ben stretto intorno al corpo.
Il cuoio vecchio degli stivali scricchiolò sotto le cosce.
– Cosa?
Simone alzò
la testa, chiuse gli occhi e dilatò le narici inspirando profondamente. Una
traccia d’estasi gli affiorò sul volto.
– Il vento,
– mormorò senza guardare, – ha cambiato direzione. Non è più freddo e tagliente
come prima. Comincia a profumare. È arrivata la primavera.
Lothar puntò
lo sguardo verso l’orizzonte buio. Folate blande e intermittenti spazzavano
l’erba ingemmata di brina.
– Io sento
solo l’odore del freddo – disse osservando con la coda dell’occhio l’orlo
sfilacciato del suo cappuccio mosso dal vento. – L’inverno è alle spalle ma la
primavera non può spodestarlo da un giorno all’altro. Ci vorrà del tempo prima
di vedere i fiori sbucare dalla crosta della terra. Se davvero potremo vederli…
Queste contrade mostrano i segni di ferite profonde. Puzzano di morte, non
certo di fiori.
Mutio
respirò una seconda boccata d’aria. Poi riaprì gli occhi e lo fissò.
– Resusciterà
– ribatté con convinzione. – Come dici tu, ci vorrà del tempo. Ma prima o poi,
quando i suoi carnefici saranno cenere buona per concimarla, allora
resusciterà. Credo che la terra abbia la scorza dura. Noi passiamo, ma le
montagne e i fiumi restano. Resusciterà.
– Forse hai
ragione.
– Anche se
piagata dalla guerra, non può non reagire all’arrivo della primavera. Io sento
che l’odore nell’aria sta cambiando.
Lothar e
Mutio si guardarono negli occhi per qualche istante. Poi Lothar gli sedette
vicino. Sapeva, sentiva che l’Alteano aveva qualcos’altro da dire che non
riguardava il cambio di stagione: ricordava la strana distanza della sera
precedente. Attese che si esprimesse, ben sapendo che in quei frangenti ogni
esortazione è inutile. Dopo un paio di minuti Simone si decise a parlare.
– Mio figlio
dovrebbe nascere le prime settimane di primavera – mormorò senza distogliere lo
sguardo dall’orizzonte. – Mi chiedo se i suoi occhi si siano già aperti. E, se
sì, dove si trovino ora lui ed Helena.
Lothar
ascoltò senza intervenire. Simone stava tastando con cautela il proprio dolore,
lui sarebbe stato testimone della sua intima sofferenza, l’avrebbe aiutato a
sentirne il gusto agro. L’abitudine a soffrire non lenisce la pena, ma la
consapevolezza del proprio dolore è un dono indispensabile, benché sgradito,
per poterci convivere.
– Sai quale
sarà il suo nome? Quale sarà oppure qual è, se è già venuto al mondo?
Quella
precisazione fece sorgere una ruga di amarezza sulla fronte di Mutio.
– Se sarà
una bambina, Eva. Lo ha scelto Helena. Ma se nascerà maschio, – il suo tono si
addolcì e si arricchì di una nota d’orgoglio, – si chiamerà Mikael. E questa è
una scelta mia.
– Mikael non
è un nome Alteano – constatò Lothar stupito.
– No, certo
che no. Ma mio figlio non nascerà in Altea. Mikael è un nome che mi è sempre
piaciuto. Quando vivevo ad Amor e conoscevo tanti pellegrini che venivano dai
Principati oltre la Cordigliera, i loro nomi mi suonavano esotici, alcuni li
trovavo addirittura bislacchi. Nomi che ancora adesso fatico a pronunciare. Ma
Mikael mi è sempre piaciuto. Mio figlio nascerà nel Principato di Lum. Se sarà
maschio si chiamerà Mikael, se sarà femmina Eva. Alle volte non è facile vivere
da forestiero, in una terra che non è la tua. Anche quando non si è davvero
forestieri. Capisci cosa intendo? Mio figlio nascerà nei Principati, con un
nome adeguato. Non mi piace l’idea di saperlo trattato con diffidenza e
intolleranza dai suoi compaesani per colpa di un nome straniero.
– Capisco
cosa vuoi dire. La gente sa essere razzista e sospettosa. Noi stessi a volte ci
comportiamo così, senza rendercene conto. O forse, in fondo al cuore, sì.
Mutio
incassò la testa tra le spalle e tirò le mani fuori dalla coperta. Lothar vide
che teneva stretto tra le dita un fazzoletto. Simone lo svolse su un ginocchio.
Sul tessuto, liso e ingiallito, era ricamato un disegno ben riconoscibile
nonostante un paio di buchi e molte macchie: era un boccale da birra dal quale
spuntavano dei dadi e quattro carte da gioco aperte a ventaglio.
– Lo stemma
del Boccale del Gioco – disse Lothar.
– Il Boccale
del Gioco. – Mutio pronunciò adagio il nome del suo locale. – Sono passati
quasi quattro mesi da quando ho detto addio a Helena, a Holser. Quattro mesi.
Mi domando ogni giorno dove sia. Al monastero di Fenice, mi rispondo. I
sacerdoti l’assistono nella preparazione al parto oppure si congratulano con
lei per lo splendido bimbo che ha messo alla luce. Probabilmente. Ma come posso
esserne sicuro? Posso attraversare l’oceano a piedi per andare a sincerarmene,
per fugare le mie ansie? Serbo come una reliquia il pensiero di lei e di nostro
figlio, lo custodisco nel profondo del cuore. Ma è un pensiero che alle volte
mi strugge. – Si portò una mano al viso. Osservò per alcuni istanti le rughe
che gli solcavano il palmo. Poi, con un gesto lento e sofferto, sollevò la mano
e se la passò sui capelli. La chioma castana gli ricadeva sulle spalle tutta
arruffata. – Ho promesso a mia moglie che sarei tornato per farmi fare una
nuova treccia da lei. I capelli sono ricresciuti. Forse troppo in fretta.
– È quindi
giunto il momento dei rimpianti? – chiese Lothar.
– No – rispose
Mutio scuotendo la testa. – No. C’è qualcosa in fondo alla mia coscienza che
continua a ripetermi che ho compiuto la scelta giusta. È stata ed è ancora una
scelta molto dolorosa, lo sarà sempre. Ma non tutte le scelte giuste sono
piacevoli. Qualcosa mi dice che è così. Forse è la voce del Destino. Il fato mi
ha voluto qui, al tuo fianco.
Lothar
tacque. Rifletté sulle ultime parole.
Il Destino, pensò.
– Torneremo?
– domandò Mutio bruscamente.
– Non posso
saperlo.
– Tu credi
che torneremo?
– Forse lo
chiedi alla persona sbagliata. Forse dovresti chiedere a Mighal di interrogare
il suo diletto Destino.
Mutio fece
un sorriso rilassato.
– Ho idea
che la cosa non funzioni proprio così.
– Anche io –
aggiunse Lothar sorridendo a sua volta."
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