12 Novembre 1997. Venti anni. Da un preludio che è stato
primo passo emozionato di un cammino del tutto inconsapevole di quanto a lungo sarebbe durato il viaggio.
“Il sole del
mattino splendeva pallido tra le nubi che come grigi drappi ancora si
attardavano nel cielo.
La
brezza mattutina trasportava con sé l’odore della pioggia passata, gelando
l’acqua sul mantello del viandante. Questi, dal canto suo, pareva non
accorgersene: aveva viaggiato a lungo e non sempre era riuscito a trovare un
riparo confortevole dai rovesci che avevano imperversato sulla contrada durante
tutta la settimana precedente.”
Era autunno ed avevo vent’anni. Ditemi, ve li ricordate i
vent’anni? Tanta più energia di ora, aggrovigliata tuttavia in quel periodo in
una matassa come di nubi vorticanti, smaniose di scaricare pioggia e lampi
senza capire bene come. Fino alla notte in cui, dinanzi a un vecchio PC 486, mi
ritrovai specchiato in un monitor lucente, animato di parole che si facevano
frasi, di pensieri che si mutavano in capoversi, fino a raccontare il principio
di un viaggio. Ed eccole di colpo là, le mie nubi, espresse dinanzi ai miei
occhi, esorcizzate da un sole che sbucava tra gli strappi di una tempesta che aveva
trovato finalmente sfogo dopo tanto imperversare. E si fotta chi solleva il
sopracciglio con aria di sufficienza per via dell’ennesimo incipit meteorologico,
chi crede di poter scrivere con le mani ben salde sul timone dei propri
paradigmi narrativi. Io quella notte scrivevo incosciente.
Io quella notte scrivevo col cuore.
Come avrei fatto tante altre volte in futuro, come non
avrei mai fatto nello stesso modo, poiché le prime volte sono destinate a
restare tali, benedizione o condanna, su ogni campo e in ogni universo
conosciuto.
“Il sole del mattino
splendeva…” tra i nembi della mia ispirazione lacerata e per dunque feconda,
e un uomo camminava al suo tepore col mantello nero ancora grave di pioggia. Si
chiamava Lothar Basler, aveva gli stessi occhi verdi e febbricitanti di chi lo
trascinava su quella strada. Era ancora quella lunga notte e io non potevo
sapere che per i successivi vent’anni non avrebbe più abbandonato i miei
pensieri.
Ma non è semplicemente a Lothar che penso oggi. Penso a cosa
ha significato la scelta intrapresa allora di mettere per iscritto le luci e le
ombre che s’inseguivano nel mio cuore. Per mesi, ho riversato molto di ciò che
ero in un romanzo che non si poneva ancora nemmeno la questione di considerarsi
tale. Non possedeva neanche un nome, era un semplice file dal titolo ‘Preludio’,
quasi provasse pudore dinanzi ai capitoli che si susseguivano a svilupparne la
trama. Scritto su Write, un applicativo minimale nelle funzioni e nella
formattazione (sarei passato a Word solo col volume successivo), in parte scritto
direttamente a mano su fogli qualsiasi quando pur lontano dalla scrivania non
riuscivo a vincere la smania che mi sprofondava nella storia. Eccoli là, sparsi
alla rinfusa sul tavolo, fogli ingialliti e stropicciati fitti di prosa o di
appunti o di schizzi che hanno costituito le fondamenta di tanto lavoro. Il
loro contenuto è spesso cambiato nelle rielaborazioni tese a perfezionarlo fino alle pagine pubblicate, ma il loro senso autentico è sempre lì, nella
matita sbiadita, nella penna sbafata, nell’odore lievemente muffito della carta
giaciuta per anni in un cassetto.
Penso ai tre romanzi che è diventato, agli altri tre che l’hanno
seguito. A quelli di cui non ho ancora mai parlato. Alla loro pubblicazione, la
‘mia’ pubblicazione, il rendere disponibile così tanto dell’intimità dell’autore
attraverso librerie, fiere, presentazioni, interviste... Il sogno coronato di
raggiungere migliaia di persone con le proprie storie.
In questi vent’anni ho percorso molta più strada di quanto avessi
mai pensato. Ho goduto per quel che mi è stato concesso della mia dose di luci della ribalta, ho scoperto le ombre dell’editoria e del mondo che le gira
intorno, una moltitudine di spigoli nascosti che dalla platea, senza poter sbirciare dietro le
quinte, non puoi nemmeno immaginare.
Scrittore, se scrittore è chi scrive a qualcuno che può e
vuole ascoltare.
Scrittore, se scrittore è chi non ha capacità di resistere
al richiamo che lo spinge a dare una forma alla tempesta che certe notti gli
imperversa nel cuore.
Vent’anni sono un soffio, se ti volti a guardare. Possono
farti lacrimare gli occhi quando li contempli d’un colpo mentre la loro memoria
finisce per scorrerti troppo veloce sulla pelle. Ho scritto così tanto da
quella notte, e se davvero volete conoscere qualcosa di me allora non vi resta
che cercare la chiave persa tra le pagine vergate. Ai più non interesserà, e
questo è tutto sommato confortante: a loro resterà il piacere - io auspico - di
leggerne la storia, di spartire il riso e il pianto coi suoi protagonisti.
Vent’anni da una notte dinanzi uno schermo, col cuore un po’
trepido e un po’ emozionato del viandante riscaldato dal sole dopo giorni di
tempesta. Del loro trascorso mi restano sorpresa e nostalgia, e un bagaglio d’esperienza
che spero comprenda anche un poco di saggezza.
Ma soprattutto,
mi resta la voglia talvolta incontenibile di continuare a viaggiare.
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