giovedì 22 dicembre 2016

Al mutar della stagione, come faville credute spente sotto le braci...

"L‘inverno giunse dal nord ammantato di vento e con l’alito di ghiaccio. Discese dalle lande candide di neve del settentrione col passo sicuro e cadenzato del pellegrino cui sia ben nota la strada, di chi innumerevoli volte ne abbia calcato il percorso. Venne annunciato, vigoroso dinanzi agli spasmi terminali dell’autunno morente, implacabile nella certezza del suo tempo rinnovato.

Stese il suo rigido mantello sui tetti dell’orgogliosa Kaisersburg, strinse nel gelido abbraccio gli stendardi vermigli sulle mura di Volturnia. Passò, ombra diafana di pioggia e tempesta, a soffiare il suo spirito contro i bastioni dell’austera Gavanin, tra i vicoli tetri dei suoi quartieri militari. Cavalcò, su frangenti di nuvole e vento, sulle cupole e sui pinnacoli dorati di Jemi la Splendida, fischiò sul mare schiumante oltre i suoi lidi frastagliati, sino a raggiungere i pontili fatiscenti e le strade ricche di miseria della decadente Saëgata.

Calò, sudario impalpabile di caligine e brina, sulle guglie sempreverdi di Ebor. Discese tra le case di Lum, lacerando col suo staffile di vento il velo esangue sul suo volto di pietra. Proseguì al di là dei crinali innevati della Cordigliera, invase le contrade tristi e desolate di Altea, s’insinuò tra le spoglie sbriciolate dalle epoche della malinconica Amor, tra i canali luridi e melmosi della moribonda Veron.

Venne dal nord, porgendo il suo immutato saluto, la sua eterna sembianza, sfiorando le terre del continente con una carezza da sempre nota.

Nelle campagne, i contadini rabbrividivano avvolti nei mantelli di lana, rimpiangendo gli ultimi dolci mesi d’autunno. Sulla soglia delle proprie abitazioni, osservavano il cielo terso ricoprirsi di nubi gravide e rievocavano le settimane recenti, la vendemmia e la semina dei campi ora placcati di brina. La legna già era stata raccolta e attendeva le fiamme del camino accatastata in cantina o nei granai. I maiali ormai grassi razzolavano pigri e beati nei recinti, sazi delle ghiande ingurgitate con foga nei giorni passati, ignari dei festeggiamenti per i quali erano stati preparati: tra breve sarebbero stati appesi a un palo per le zampe posteriori, la loro gola sarebbe stata squarciata, il loro sangue raccolto e le loro carni arrostite. I fattori fissavano rapiti la magia del loro fiato fumigante nell’aria rigida del crepuscolo. Riflettevano sui lunghi giorni che avrebbero trascorso seduti dinanzi al focolare, a scrutare tra le braci il destino che li avrebbe spinti, in primavera, a tornare ai campi con le zappe in mano. Non l’ignoranza, né la prosaica attitudine che gli era tipica di concedere poco spazio ai sentimenti, impediva ai loro cuori di fremere d’un fugace palpito di nostalgia nel rammentare i raggi tiepidi dell’ultimo sole d’autunno che pochi giorni prima aveva benedetto, rosso e dorato, i volti dei loro figli.

Nelle città, all’interno delle mura incoronate di merli, la vita si protraeva monotona. L’inverno avrebbe ridotto l’afflusso dei pellegrini accrescendo l’impraticabilità delle vie di comunicazione. Molti meno viandanti sarebbero giunti a bussare ai portali col loro bagaglio di bisacce e di storie da taverna. I gendarmi avrebbero trascorso interminabili ore di noia e freddo a battere i denti nella logorante attesa del cambio della guardia. Nelle abitazioni, nelle botteghe, in mezzo ai tavoli delle osterie, la gente si sarebbe stretta in un abbraccio reciproco, all’inconscia ricerca di una fonte d’umano calore. Avrebbe fronteggiato pioggia e vento, lavorando alacremente e chiacchierando e raccontando storie di banale realtà e assurda fantasia, le mani intirizzite nei guanti e gli occhi smarriti nella vampa dei camini. In qualsiasi stagione, le città restavano sorgenti e amplificatori di vicende, fulcro di raccolta e smistamento di notizie. Una girandola di voci si rincorreva per le strade, sebbene la maggior parte di esse altro non fosse che il coro insistito e variegato dell’unica Voce: quella che volava di bocca in bocca tra i banchi del mercato, in mezzo ai vicoli e ai pontili, da un tavolo all’altro delle taverne, in ogni angolo - fosse splendido e sontuoso oppure buio e inzaccherato - delle città.

Guerra.

Le truppe radunate alla base dei torrioni e nei distretti militari, mercenari stranieri e soldati con le insegne dei Principati: ormai tutti avevano visto le schiere accampate fuori dalle città o in marcia per le campagne. Quella che fino a poche settimane prima era sembrata una delle tante dicerie in volo per le strade si era rivelata in tutta la sua concretezza. A occidente, oltre l’oceano, in terre di cui pochi sapevano davvero qualcosa, se non certi eruditi oppure gli abitanti della costa che avevano conosciuto mercanti e viaggiatori giunti dall’altra sponda del mare, a ovest si combatteva un conflitto sanguinoso. E i Principati si preparavano a intervenire. Dopo aver adunato parte dei contingenti regolari nei maggiori porti marittimi, avevano divulgato numerosi bandi di reclutamento per accrescerne i ranghi. In molti si erano arruolati, barbari dagli occhi grigi venuti dal nord, Alteani dalla pelle abbronzata e i capelli mori, assieme a una congerie di umanità della più disparata specie per lo più insoddisfatta della vita, alla ricerca di avventura, di guadagno, di un senso autentico e disperato per la propria esistenza; briganti e galeotti, in alcuni casi tutt’altro che infrequenti, braccati dalle autorità, bramosi di libertà e di chissà quali vagheggiati bottini.

Affacciati alle finestre luminose dei loro opulenti palazzi, i nobili osservavano con distacco l’animosità febbrile che contagiava gli spiriti della plebe raccolta promiscuamente tra i rioni impestati di tanfo e rumore. Carezzati dal tocco soffice della seta e dello sciamito, vegliavano con pigra indifferenza sulle sorti misere del popolo, invidiando tuttavia nel nucleo recondito del proprio cuore il colore e l’incredibile gamma di sfumature di cui l’esistenza stentata di quegli uomini riusciva comunque a dare sfoggio. Attraversavano corridoi nell’eco solitario dei loro passi, camminavano annoiati sotto loggiati deserti, intorno a giardini attanagliati dal gelo. Si interrogavano distrattamente sull’insoddisfazione del proprio cuore, del proprio spirito ingabbiato nell’oro e nello sfarzo, incapaci ormai d’animarsi di pulsioni improvvise se non in momenti sempre più rari e preziosi. Ma si trattava di riflessioni fugaci: presto la mente ritrovava morale e si concentrava sul pensiero del prossimo banchetto, della prossima notte di lussuria in compagnia di una nuova cortigiana dalle giovani forme. Guardavano il cielo gonfio di vento e meditavano sull’avvento della prossima primavera, allorché avrebbero potuto cavalcare tra i boschi con il proprio seguito di cavalieri e scudieri, con la muta di segugi affamati attorno e il falcone incappucciato sul braccio, a caccia di volpi, cervi e cinghiali. Allora tornavano a sorridere, dimentichi di ogni cupa riflessione.

L’inverno recava la fine dell’anno e con essa un periodo di fervore religioso. Era questo il tempo delle investiture per gli adepti di Volkos, l’ardimentoso Dio della Guerra. All’interno delle ombrose navate delle sue cattedrali fortificate, intrise dell’aroma dell’incenso e del sapore dell’acciaio, i novizi dell’ordine di monaci guerrieri recitavano genuflessi i cori delle litanie d’iniziazione. Porgevano le proprie spade e i propri scudi ai piedi degli altari di ferro, pregando il dio affinché li benedicesse. Col capo prostrato dall’emozione e dal rispetto, lasciavano che i confratelli superiori tracciassero il venerabile simbolo della spada sulle loro spalle. Allora erano infine pronti a vestire il mantello cremisi, icona secolare del sangue eroico e battagliero di Volkos, che li avrebbe accompagnati in combattimento fugando ogni sentimento di codardia dai loro cuori.

Nelle campagne e nei villaggi lontani dalle città, i chierici verde vestiti di Fenice portavano la benedizione dell’Albero Sacro tra le genti. Esortavano i fedeli a celebrare i riti e i sacrifici prescritti per beneaugurarsi il sorriso radioso della dea in vista del nuovo anno. Intere comunità si univano a loro per pregare Fenice sul greto dei ruscelli e sulla cima dei poggi battuti dal vento o inzuppati dalla pioggia. Poiché anche l’inverno, catechizzavano i chierici, era figlio della Grande Madre e fratello delle altre stagioni. Al calar del sole, alti falò punteggiavano le piazze dei borghi e i cortili delle fattorie. La gente vi si raccoglieva intorno gettando tra le fiamme la sterpaglia e le erbacce sradicate dai campi e dagli orti. Le osservavano accartocciarsi tra le vampe; levavano una preghiera alla Grande Madre affinché un giorno quello che l’inverno aveva fatto tacere potesse risorgere a nuova vita. I duri mesi a venire avrebbero offerto tempo per i salmi e le riflessioni nell’attesa del momento in cui Fenice sarebbe discesa ancora tra gli uomini sotto braccio alla primavera, per celebrarne il nuovo sposalizio con la terra.

Nelle Città Stato dei Principati avevano inizio i laboriosi addobbi dei templi di Yor, il Grande Fratello e Signore di tutti gli dèi, assiso sul Suo trono di fuoco tra le stelle del cielo. L’ultimo giorno dell’anno, il trentunesimo del dodicesimo mese, il Sommo Sacerdote in persona avrebbe aperto i portali del maestoso tempio a Kaisersburg, mentre i devoti patriarchi dell’Ordine lo avrebbero imitato a Volturnia, Gavanin, Jemi, Saëgata e Lum. Sopra un carro adorno di velluto e oro, avrebbe attraversato la città, conducendo tra le case l’emblema sacro del Disco Solare. Accompagnato dai chierici dalla candida tonaca e dai cavalieri devoti vestiti a cerimonia, avrebbe guidato la processione nei quartieri di Kaisersburg per invocare la grazia del dio sulle genti festanti. Il principe con tutta la corte lo avrebbe seguito scortato dalla guardia personale e presto il corteo si sarebbe ingrossato, mano a mano che i cittadini si fossero accodati per intonare i salmi tradizionali. Per tre volte avrebbero percorso il perimetro esterno delle mura, fino a quando, al tramonto, il Sommo Sacerdote non avesse ricondotto i fedeli al tempio per pronunciare la benedizione formale. Quando il sole fosse calato oltre il mare, sarebbero cominciati i festeggiamenti. Si sarebbero protratti per i quattro giorni seguenti, con giochi, tornei, spettacoli e banchetti sulle piazze e fuori le mura.

Nei pressi dei cimiteri le campane delle chiese di Moors battevano il loro sordo rintocco, unica voce nei templi lugubri e silenziosi. Il sopraggiungere dell’inverno e la fine dell’anno non venivano in alcun modo celebrati dai chierici rasati del Dio della Morte: autunno o inverno, estate o primavera, l’Eterno Mietitore sempre passava per le case e sotto i ponti, tra colline e foreste, ignaro dello scorrere delle stagioni, perpetuo e implacabile nelle sue incombenze. I suoi accoliti impaludati di nero si raccoglievano in pacata preghiera sui banchi di pietra dei santuari e conducevano le liturgie funebri durante le tumulazioni senza preoccuparsi del freddo o dell’arsura.

Mentre i culti ufficiali si preparava a celebrare l’anno nuovo tramite rituali vecchi di secoli, molte erano le persone che, pregando l’uno o l’altro dio, si lasciavano andare a oscure invocazioni o insoliti gesti arcani. Grave era il fardello dell’ignoranza che appesantiva la maggior parte delle genti e ancor di più quello della paura che adombrava i cuori: paura di un mondo in gran parte sconosciuto, paura di un destino misterioso e troppo spesso infausto, paura di una vita legata in tutti i suoi aspetti al filo sottile della speranza. La notte, quando il vento gemeva contro le finestre e le ombre ingoiavano il mondo tra le loro pieghe impenetrabili, molti erano quelli che ricorrevano ad ancestrali gesti propiziatori per esorcizzare i timori e dar sollievo all’animo oppresso delle angosce e dagli interrogativi. Al cospetto dei falò in onore di Fenice, più di un devoto gettava tra le fiamme un piccolo fantoccio di paglia e tela, secondo un’usanza troppo remota perché potesse trovarsi annotata nella regola canonica di uno qualsiasi dei culti ufficiali. Curiose composizioni di ramoscelli e steli di grano campeggiavano sulla soglia delle abitazioni di campagna, rozzi simulacri patrimonio di culture e credenze annegate nell’oblio del tempo. Erano solo alcune delle infinite piccole scaramanzie professate da una civiltà afflitta da mille incertezze sul presente e sul futuro, troppe perché bastasse una pomposa processione cittadina o la predica compassata di un chierico per bandirle. Il simbolismo ieratico che impregnava la vita di ciascuno spesso perdeva i propri connotati definiti e codificati, nell’impossibilità di spazzare via tutte le ombre che assediavano i passi dell’esistenza. Si faceva vago e talvolta contorto, facile preda dell’ansia e dei sentimenti più morbosi. Tra i più arditi e maliziosi c’era persino chi, nel buio umido di una cantina, nel cuore di un bosco allagato di bruma o nei recessi del proprio palazzo, salmodiava litanie oscure. Invocavano entità misteriose, intonavano versi antichi quanto le montagne, retaggio blasfemo e degenerato sopravvissuto alla mola dei secoli.


L’inverno rivestiva la terra e le case di una cappa di gelo cristallino. Assopiva il continente e le città. Ma, sotto la coltre di pioggia e neve, sotto il freddo, gli animi umani crepitavano di vita e di emozioni, come faville credute spente sotto le braci..."



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