Ho pensato di postarne qualcuno, accomunandovi un passaggio narrativo. Procedendo in senso inverso alle pubblicazioni, parto con uno dei protagonisti de "Il Richiamo del Crepuscolo", ovvero Eusebio 'EVX' da Frennes.
.....
Non
esisteva un momento esatto in cui poteva accadere. Più che una reminiscenza
stimolata da qualcosa - un dettaglio osservato, un odore percepito, un suono
udito - era un riflusso rimestato dal pozzo torbido della memoria. Gli accadeva
al mattino appena svegliato o alla sera, quando giaceva nell’anticamera spesso
tormentata del sonno. Gli accadeva da solo o fra la gente. Talvolta, gli
accadeva perfino mentre era immerso nella meditazione della preghiera. Come
adesso. L’irritazione che provava in quei casi contro se stesso non serviva a
conservare la concentrazione nel suo intimo dialogo con Dio.
Sciolse
le dita intrecciate in grembo con le orecchie vibranti dell’eco di un clamore
fantasma. Urla e applausi, imprecazioni e versi selvaggi amplificati dalle migliaia
di gole schierate tutto attorno. Un’ondata fisica che premeva sulla pelle,
disarticolata e altalenante, resa omogenea soltanto dalla forza del getto
incessante. E nella ridda di fragori brutali, esplodeva come un bolo d’aria
compressa il suo nome di battaglia.
Eux,
Eux…
Il
rullo di un tamburo, il motivo ossessivo di un inno cupo.
Eux,
Eux, Eux…
Si
portò le mani davanti al viso. Il dorso ruvido era un campo di cicatrici
attorcigliate. Una gli serpeggiava biancastra sulla sinistra, dal polso fino
alla base del mignolo, dove il colpo che gliela aveva inferta aveva distrutto
il tendine riducendogli il dito a un’estremità rattrappita di cui non aveva più
controllo. Nei pressi, il profilo di due nocche adiacenti non era più visibile
a causa delle ripetute fratture che gliele avevano sbriciolate. Stessa sorte
era toccata a più della metà delle giunture della mano destra, martoriata dai
colpi vibrati prima ancora che da quelli subiti. Quando il clima mutava, quando
l’aria s’appesantiva d’ozono e l’umidità colmava gli spazi, il dolore era una
sfilza di ganasce che gli mordevano il corpo. Le mani, le ginocchia, il collo,
la testa. Le vecchie ferite gli bruciavano ovunque, le articolazioni si
riempivano di vetro macinato e la carne s’incendiava. Ma non ci faceva ormai
più tanto caso. Era abituato al dolore, da quando era nato. Stringeva un poco
più i denti, indurendo la maschera perennemente tesa del volto, e tirava
avanti. Allorché le voci fantasma gli rimbombavano nelle orecchie, tuttavia,
qualsiasi cosa stesse facendo, Eusebio si fermava a ricordare.
Eux,
Eux…
Era
incredibile la vividezza con cui riusciva a rievocare le sensazioni: la carezza
viscosa del sudore misto a sangue che gli cola sulla pelle, la raffica degli
schiamazzi sugli spalti, la terra sotto ai piedi, ora soffice di sabbia, ora
più spoglia e dura, sovente viscida di fluidi spillati. E il suo respiro, ritmo
della vita che lotta per preservare. Dapprima regolare, poi rotto dall’affanno
e dalle fitte lancinanti. Il ritmo del fiato che esala tra i denti, fulcro
primario della sua concentrazione. Batte il tempo di ogni movimento, scandisce
il fluire del sangue nelle vene. In qualsiasi circostanza egli si trovi,
torreggiante sull’avversario ormai esanime o prostrato nell’angolo cieco dei
troppi colpi incassati, è il ritmo del respiro l’ultima briglia su cui deve
mollare la presa. Così gli è stato insegnato. La sanzione del vantaggio e la
speranza del capovolgimento di fronte, entrambe le facce della moneta passano
per il fischio cadenzato che riesce a incanalare tra la gola e il palato.
Non
esisteva un momento esatto in cui si metteva a ricordare, ma c’era un giorno
preciso a cui più spesso finiva per tornare. Mai come allora s’era aggrappato a
quella lezione preziosa. Ma mai come allora gli era stato difficile onorarla,
col naso distrutto e ricolmo di sangue e cartilagini frantumate che parevano
volergli scendere nella gola ogni volta che provava a respirare. Ricordava il
verso lugubre dei gabbiani che si spingevano sin lì dal porto, attratti dalla
speranza d’un banchetto diverso dal solito, e il ruggito invasato degli spalti
ridotto a un riverbero ovattato dal ronzio che gli trapanava le orecchie.
Ululavano assettati di sangue, affatto sazi di quello che già intrideva l’arena
rischiando di farlo scivolare mentre muoveva passi sbilenchi sul ginocchio
slogato. Ricordava come una sensazione estranea la pressione del braccio
sinistro che teneva schiacciato al busto per proteggere il costato fratturato.
Ciondolava dilaniato dalle fitte, un occhio accecato dal sangue e intarsiato da
una raggiera di lacerazioni.
E il suo primo pensiero, come sempre, era stato:
respira, regola il respiro, respira, regola il respiro…
Nessun commento:
Posta un commento